In Sicilia, provincia di Agrigento c’è una località lontana dalle rotte più battute dell’archeologia e del turismo. È un luogo pieno di fascino, bellezza e antichità: Caltabellotta.
Panorama di Caltabellotta https://www.facebook.com/comunecaltabellotta/photos/a.101090507945334/101090461278672
Caltabellotta (meno di 20 km. a nord-est di Sciacca) è un piccolo comune di poco più di 3.000 abitanti che svetta a quasi mille metri di altitudine su un panorama che spazia oltre il mare fino all’isola di Pantelleria.
È una cittadina antichissima adagiata sulle pendici del Kratas, estrema propaggine meridionale dei Monti Sicani. Il gruppo del Kratas (1) di Caltabellotta comprende diverse cime: il Monte Castello, il Monte Pietà, il Monte delle Nicchie, il Monte S. Pellegrino e la Rupe Gogàla.
La storia millenaria di questo luogo, con tracce tutt’ora visibili, è spesso intrecciata alla leggenda. Il nome del borgo fu adottato durante la conquista araba alterando l’espressione “Qalat al-Ballut o Qalat al Balat”. Dovrebbe significare Rocca delle Querce, o in alternativa, secondo quanto viene riportato dal geografo Edrisi (XI-XII sec.), Fortezza costruita sulle balate, cioè sulla pietra spianata.
Caltabellotta difende la tradizione che la vuole erede di Inycon (o Inico), centro abitato citato anche da Erodoto, presso i cui confini sorgeva Camico, la reggia-fortezza di Cocalo (o Kokalos)sovrano dei Sicani, anche se l’identificazione dei due leggendari insediamenti non è accertata con sicurezza e spesso sono variamente indicati in altre località dell’antico territorio dei Sicani.
Il nome della Rupe Gogàla che sovrasta il borgo di Caltabellotta, pare celebri quello dell’epico re dei Sicani Cocalo. Quest’ultimo è ricordato per aver dato asilo a Dedalo, architetto del famoso labirinto di Cnosso quando, insieme al figlio Icaro, fuggì in volo da Creta e dal labirinto in cui era stato confinato da Minosse. All’inseguimento di Dedalo, Minosse raggiunse la Sicilia, ma proprio a Inycon trovò la morte, annegato per mano di Cocalo e delle sue figlie mentre prendeva un bagno in una vasca.
Il re cretese fu sepolto in Sicilia e i suoi sudditi, per vendicarne la morte, assediarono Camico. L’assedio durò cinque anni, ma alla fine i Cretesi, non riuscendo ad espugnarla, abbandonarono l’impresa. La maggior parte di loro rimase in Sicilia diffondendosi in diversi luoghi dell’isola.
Lo storico Ettore Pais ipotizzava che tali credenze erano sorte in seguito alla colonizzazione cretese-rodia di Gela ed Agrigento che introdusse in Sicilia vari elementi della cultura cretese (vedi E. Pais, Studi storici, 1892). Si racconta che durante il periodo dell’ellenizzazione del territorio sicano (intorno al VI sec. a.C.), l’originario toponimo di Inycon fu modificato in Triòkala (o Triocala), nome che secondo Diodoro Siculo celebra le “tre cose belle” (tria kala) dell’insediamento, ovvero i suoi tre punti di forza: la posizione inespugnabile perché naturalmente fortificata, la terra feconda ideale per la produzione di olio e vino e l’abbondanza di sorgenti d’acqua dolce.
In realtà ufficialmente non ci sono prove sicure per affermare che la piccola altura di S. Anna nei pressi di Caltabellotta corrisponda davvero all’antica Triocala, ma la versione tradizionale continua a godere di ampia popolarità.
In ogni caso sono molte le tracce archeologiche a Caltabellotta: due grotte sul Monte Pellegrino – di cui una detta Grotta del drago – testimoniano la presenza umana fin dalla preistoria più remota. E quattro necropoli sicane con tombe a grotticella, sono riconducibili all’Età del Bronzo antico.
Tracce archeologiche a Caltabellotta - Screenshot da Google map
Osservando le immagini satellitari ho notato che nel territorio della cittadina sicana ci sono evidenti altre tracce archeologiche che non sembrerebbero essere state ancora oggetto di scavi. Forse potrebbero essere i resti dello stesso insediamento, ancora senza nome, sulla collina di contrada San Benedetto, oggetto di scavi da parte degli archeologi dell’Università di Catania dal 2011.
“Un sito di grande importanza – dice l’archeologa Rosalba Panvini, soprintendente di Ragusa e Siracusa – che avevamo iniziato a indagare 30 anni fa.” ….
“abbiamo ripreso gli scavi programmatici per poter ricostruire le fasi storiche di un pezzo della Sicilia ancora sconosciuta. Caltabellotta custodisce le vestigia di un villaggio indigeno poi ellenizzato all’arrivo dei Greci. Un luogo strategico, inespugnabile perché sulla sommità di un colle a mille metri di altezza, e ricco di acqua per la presenza di sorgenti: un luogo idoneo per fondare un villaggio.”
“Ma ciò che non ci aspettavamo – dice Dario Palermo, docente di Archeologia all'Università etnea – era di trovare tracce di età preistorica: una vera sorpresa.”
Dell'insediamento preistorico sono state trovate due grandi capanne circolari dell'età del Ferro, ampie 10 metri, ma per ricostruire la storia di questo sito occorre scavare ancora.
(vedi News: https://www.lasicilia.it/news/cultura/11184/caltabellotta-al-via-gli-scavi-nella-citta-senzanome.html)
Tuttavia, il resto antico più interessante, a mio avviso, è quello che viene identificato come ara votiva o altare sacrificale dedicato al Dio Kronos.
“Altare” di Kronos a Caltabellotta foto di Claudio Maria Abbate tramite Google map
Caltabellotta: ara o altare?
Il manufatto, che si trova in un punto dominante ed impervio della Rupe Gogàla, è una doppia scala modellata su un blocco di roccia nella sua collocazione naturale. Come dicevo, è considerato un’ara votiva o altare sacrificale dedicato al Dio Kronos e si tramanda che in epoca greca e romana l’artefatto veniva (ancora) usato.
Ma chi l’aveva scolpito in origine?
E davvero ebbe la funzione di ara/altare?
Di Tiberio Frascari - Caltabellotta, Sicilia - giugno 2011 Uploaded by Markos90, CC BY-SA 2.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=20429939
Innanzi tutto, per capire se il resto archeologico in questione è un’ara o un altare, dobbiamo appurare le differenze tre le due cose scendendo nei dettagli il più accuratamente possibile.
L’ara e l’altare, molto diffusi nelle culture antiche (romana, greca, egiziana, ebraica e mesopotamica), furono manufatti impiegati per riti sacrali o comunque per usi religiosi, molto simili tra loro, ma non identici né equivalenti anche se spesso le due parole vengono impiegate in modo indistinto e i due elementi confusi uno con l’altro.
Di fatto neanche la tradizione storica ci aiuta più di tanto a comprendere con precisione le differenze tra i due elementi anche perché le pratiche sacrificali non seguivano sempre gli stessi schemi esatti.
Riporterò comunque i rituali più noti.
Consideriamo ora i due termini singolarmente.
ARA - Secondo quanto riferisce il filologo latino Servius Honoratus, le antiche are non erano mai rialzate sopra il livello del suolo poiché su di esse venivano bruciate le offerte destinate alle divinità terrestri e ctonie. Nel sacrificio ctonio, che prevedeva l’interazione con divinità sotterranee, veniva offerto un animale dal mantello nero o comunque scuro.
Questo tipo di rituale era detto olocausto in quanto l’animale sacrificato al Dio veniva bruciato per intero, quindi l’offerta andava totalmente distrutta.
Come detto, il sacrificio era eseguito su un altare basso o in una cavità nel terreno e a volte, l’animale offerto veniva sepolto.
I devoti guardavano verso il basso e abbassavano i palmi delle mani dirigendo i fumi verso la terra e le profondità delsuolo, là dove risiedevano le divinità ctonie e infere.
Come libagione il miele era comunemente il più usato. Gli antichi etimologisti ritenevano che il termine “ara” fosse molto affine ad “area” (ovvero una superficie piana racchiusa da un perimetro) e vicina ad “ardeo” = ardere.
Tuttavia, certi linguisti non ritengono del tutto soddisfacente la spiegazione dal punto di vista etimologico. Alcuni rilevano un’attinenza col termine greco ἀρά → àra = “preghiera”, così come un altro legame può essere individuato nella radice sanscrita âr a cui certe fonti attribuiscono il significato di “purificare”. Il linguista August Pott e il filologo Wilhelm Meyer-Lübke, attraverso l’osco aasa e il latino arcaico asa, riconnettono l’origine di ara alla radice sanscrita ās con significati di “sedere”, “restare”. Da quella ās sanscrita discendono per esempio, asê = “seggo”, “mi fermo” o asanam = il “seggio”, la “sede”.
Va tenuto conto che il sanscrito eredita dall’indoeuropeo la radice as che nella sua forma originaria significava “essere”, “vivere”, “esistere”.
Passando al greco e al latino l’indoeuropea as varia in es, come si nota nella coniugazione del verbo latino sum = “esserci”, “essere presente” (paradigma irregolare: sum, es, fui, - , esse). Ecco, dunque, l’espressione greca es-mai = “sono assiso” con un senso che rimarca l’idea di “sede fissa” sottolineando la stabilità dell’azione.
Se ne può dedurre perciò che le divinità (terrestri/ctonie, giacché parliamo dell’ara) venivano invitati a tale “sede fissa” per assistere al sacrificio e questo parrebbe essere il concetto più vicino al valore originale che si cela dietro il termine “ara”. Almeno secondo il lessicografo Ottorino Pianigiani.
Tengo comunque a precisare che se il percorso etimologico fosse corretto, allora non andrebbe neanche trascurato che l’antica radice indoeuropea *as (2) , stando a Julius Pokorny, ha anche un altro significato e sta per “bruciato”, “asciutto”, “secco”, valori che hanno comunque una certa attinenza con la funzione dell’ara.
ALTARE - L’altare è un’istallazione rituale presente nella maggior parte delle religioni conosciute. In genere si tratta di un oggetto con una superficie piana a forma di vera e propria tavola squadrata (ma anche rotonda, cubica o a tronco di cono) realizzata in pietra, terracotta, mattoni, legno o anche fatta con semplici cumuli di terra. Per l’archeologia accademica gli altari conosciuti più antichi risalgono al neolitico e sono blocchi di pietra naturale grossolanamente squadrata su cui spesso sono visibili le così dette “coppelle”, sorta di scodelle scavate nella roccia stessa.
Al contrario dell’ara, sempre secondo Servius Honoratus, l’altare si ergeva sollevato da terra in quanto destinato al culto delle divinità uraniche.
Nella Grecia classica i sacrifici uranici erano eseguiti durante le ore del giorno e come libagioni era previsto il vino. Su altari al di fuori dei templi, un animale veniva arrostito in sacrificio e il fumo che scaturiva era sospinto con le mani verso l’alto indirizzandolo agli Dei olimpici. Una volta cotto l’animale sacrificato, i fedeli banchettavano condividendo idealmente il pasto con gli Dei. Dopo aver mangiato, i devoti incenerivano le eccedenze offrendole al Dio e mentre i resti bruciavano alzavano di nuovo le mani aperte e verso l'alto, indicando ancora la sede degli Dei uranici.
Il termine altare è un tardo latino sostantivato dell’aggettivo *altaris. Da alcuni viene connesso con (ad)olēre ovvero “far bruciare”, “far evaporare” da cui il nostro verbo “adorare”.
Ma è opinione più diffusa che “altare” deriverebbe da altŭs = “alimento”, “sostentamento”, participio perfetto di ălo (paradigma: alō, alis, alui, altum/alitum, alĕre) dalla radice proto-italica *alō = “allevare”, “nutrire”, “alimentare” anche in senso figurato, a sua volta proveniente dalla radice indoeuropea al- (3) dal protoindoeuropeo *h₂életi (radice tematica di h₂el) = “nutrire”, “fare crescere”, “accrescere”, “sollevare”.
Tuttavia, alcuni ritengono *alō una variante proto-italica connessa con la radice indoeuropea ar = “alzare”, “muovere verso l’alto” (che comunque non si discosterebbe troppo dal concetto di “crescere”).
Dunque, l’altare era l’istallazione rituale sollevata da terra che fungeva da mensa riservata alle offerte destinate alle divinità che avevano dimora in un “mondo superiore”.
Ricapitolando, l’ara e l’altare in estrema sintesi, oltre che per la forma, almeno in origine, differiscono sostanzialmente per il tipo di divinità a cui le offerte erano destinate. Doni e sacrifici avevano comunque lo scopo di propiziarsi la grazia degli Dei influenzando con l’elargizione di nutrimento il favore delle loro forze trascendentali. Nutrire per soddisfare, alimentare per saziare. Un pasto rituale che rappresentava un atto di comunione indissolubile con le divinità a cui gli stessi Dei invocati erano invitati a partecipare.
Il concetto di “nutrire” gli Dei è molto antico e non solo destinando loro cibi e bevande. In alcune culture il dono più pregiato che poteva essere offerto come nutrimento alle divinità era il sangue e quello umano il più prezioso, simbolo della vita per eccellenza. Maya ed Aztechi, Germani e Celti, Egizi e Semiti. Ma anche nella Grecia arcaica e a Roma furono offerte vittime umane per placare la collera o accrescere l’energia delle divinità già considerate investite di poteri straordinari.
Per questo troviamo i termini ara/altare spesso accostati all’aggettivo sacrificale. Il sacrificio è proprio l’atto rituale con cui avveniva l’offerta alle divinità (vittime o doni di cibi e bevande che fossero).
Implicava un atteggiamento di sottomissione al sacro, il desiderio di stabilire un rapporto con esso e la cerimonia rappresentava un voto, espressione della volontà del devoto di assumersi un impegno solenne, una promessa a compiere una determinata azione, sia come ricompensa di un beneficio ricevuto dal Dio, sia senza alcun contraccambio.
Questo è il motivo per cui alle parole ara/altare troviamo accostato l’aggettivo votivo.
Dopo questa lunga disanima osservando il reperto in pietra di Caltabellotta non mi sento di poterlo definire ara e neppure altare, non ne vedo le caratteristiche.
Il manufatto in questione era senz’altro destinato a qualche rituale sacro, ma d’altro tipo probabilmente.
Caltabellotta con i suoi tre picchi: Monte S. Pellegrino, Monte Castello (centro), Rupe Gogàla Da http://www.caltabellotta.com/storia.asp
La rierca sul sito di Caltabellotta non termina qui e nel prossimo articolo tenteremo di dare un risposta al "Manufatto di Caltabellotta".
Grazie per avermi seguita fin qui
A mercoledì prossimo
Tiziana Pompili Casanova
Tiziana Pompili Casanova
Ricercatrice e scrittrice.
Ex speaker radiofonica e copywriter. Collabora con Biagio Russo e Paolo Navone alla gestione del gruppo Facebook “Viaggiatori dei Tempi”. Ha in cantiere diversi lavori editoriali (fra cui un romanzo e un saggio che presto saranno pubblicati) e altri progetti nel campo della ricerca storica.
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