Secondo le attestazioni archeologiche e in accordo con i recenti studi genetici, sembra che, a partire dal 37/35.000 a.C., nell'uomo della Antica Europa, fosse in atto un processo ben definito di profonda trasformazione.
Si manifestava nello sviluppo del pensiero simbolico, nella elaborazione del concetto di realtà sovrannaturale, ma anche con l’introduzione delle pratiche religiose, della musica, delle arti.
Tale cambiamento si rifletteva anche nella organizzazione delle comunità preistoriche, come denoterebbero le così dette società matrifocali che sembrano formarsi proprio fin dal Paleolitico superiore.
Si trattava di un modello mutuale di collettività, ispirato a principi di unione ed equilibrio in cui il ruolo delle donne era tenuto in grande considerazione. In particolare, da quel momento, il pensiero trascendente dell’uomo dimostrava di avere il suo punto di riferimento in una singola entità femminile primordiale la cui concezione pareva in essere già dal Paleolitico medio e il cui culto perdurerà almeno fino al II millennio a.C. ma anche oltre, sebbene professato in modo meno diffuso e con diverse varianti.
L’effige di tale divinità viene riconosciuta nelle numerose statuine, spesso dalle accentuate forme steatopigie, realizzate in pietra, terracotta, gesso etc. ritrovate in tutta Europa fino all’Estremo Oriente.
Questi simulacri erano la rappresentazione della forza generatrice originaria, riproducevano colei che reggeva la funzione di intermediaria tra il divino e l’umano.
Non sappiamo il nome con cui tale figura sacra era chiamata in origine. Per convenzione oggi è nota come Dea Madre, Grande Madre, Grande Dea, Dea Unica.
La Dea madre
La Dea Madre era colei che presiedeva il ciclo attraverso il quale la vita si perpetua sulla Terra: nascita, sviluppo, maturità, declino, morte, rigenerazione.
In questo si può intuire che la peculiarità essenziale di tale figura divina era quella di racchiudere in sé caratteristiche diverse. Coniugava infatti aspetti imprescindibili: era il principio confortante che accoglie, dà forma e fruttifica e al tempo stesso era il terribile elemento che annienta, distrugge e trasforma.
Questi fondamenti non vanno concepiti in opposizione, al contrario, era proprio il rapporto strettamente complementare dei due aspetti che permetteva il naturale continuo rinnovamento dell’esistenza stessa.
Di conseguenza tutto ciò che accadeva nella realtà materiale era percepito come sacro e, come tale, rispettato e onorato.
Dispensatrice di vita e morte, la Grande Madre era fortemente connessa alla Terra e alle profondità del sottosuolo viste come manifestazione dell’indole feconda e della funzione riproduttrice.
Probabilmente si rivolgevano a lei per propiziare una gravidanza, per avere protezione nella gestazione e nel momento del parto, ma rappresentava anche il nutrimento quale sostegno fondamentale per la crescita e la vitalità dell’uomo e perciò era invocata affinché elargisse un raccolto abbondante.
Nelle epoche più tarde questa natura poliedrica, ricca di aspetti complessi, non ancora del tutto intelligibili alla nostra cultura, nel tempo si frammentò in infinite singole divinità che rispecchiavano uno o più attributi dell’originale Dea primordiale.
La Dea madre e il ciclo della luna
Si ipotizza che per l’andamento sequenziale dei fenomeni nascita-morte-rinascita suddetti, la Grande Madre fosse assimilata alla Luna la quale, con le sue fasi ricorrenti, rappresentava il corrispettivo cosmico della divinità stessa.
Tali fenomeni ripetitivi, sono infatti il fondamento che contraddistingue le vite umane e i cicli naturali, così come gli stadi del nostro satellite. Dunque, alla Luna fu attribuita una natura femminile e a ciò, presumibilmente, contribuì anche la constatazione della quasi perfetta coincidenza tra la durata del mese sinodico e quella del ciclo naturale della donna, legati entrambi ad una regolarità ripetitiva di periodi di 28 giorni circa.
Gli altri simboli della Dea madre Tuttavia,
La Luna non era l’unico simbolo della Dea Madre. La rana, il pesce, il cane, il porcospino, la capra, il fallo, il triangolo, il serpente, la colomba, per motivi diversi sono tutti emblemi che riconducono alla Grande Madre e vengono interpretati come una metafora del suo principio di rigenerazione, di estrema importanza per l’uomo antico, unica certezza della sua continuità nel tempo.
È ormai consolidata l’idea che la palingenesi connaturata nella Grande Dea sia simboleggiata anche dallo scheletro della testa bovina, il bucranio, ed è proprio su questo oggetto rappresentativo della figura sacra che vorrei soffermarmi.
Nello stesso periodo in cui si diffondeva il culto della Dea, anche il Toro cominciava ad essere rappresentato, prima nelle pitture rupestri e più tardi anche nelle sculture. È ritenuto un animale totemico, simbolo della potenza, della forza vitale e della fertilità, emblema della Dea stessa.
Successivamente il significato della figura del Toro si modificherà contrapponendosi al valore femminile come principio maschile.
Ma inizialmente, le corna del bovino, furono un simbolo della Grande Madre, a motivo, si pensa, del loro profilo analogo a quello della sua equivalente cosmica, la falce della Luna.
Marija Gimbutas e la connessione Toro - Dea Madre
Marija Gimbutas, archeologa e linguista d’origine lituana (1921 – 1994), una delle principali sostenitrici della cultura matrifocale dell’Antica Europa, rafforza la connessione tra il Toro e la Dea Madre sostenendo l’ipotesi che tale collegamento sussista nella somiglianza tra il bucranio e l’apparto riproduttivo interno della donna, con utero, tube di Falloppio e ovaie che “disegnano” una sagoma simile a quella dello scheletro della testa bovina vista in posizione frontale.
Pur definendo questa simbologia “curiosa”, l’archeologa lituana riporta che ad avanzare per prima tale idea fu l’artista Dorothy Cameron, la quale si basava sull’ipotesi che gli antichi osservassero l’anatomia del corpo umano nel corso dei processi di scarnificazione dei cadaveri, quando gli uccelli rapaci strappando via le carni, scoprivano gli organi interni.
Anche se innegabilmente i reperti archeologici parrebbero confermare la connessione simbolica tra il bucranio (ma più precisamente le corna) e la Grande Madre, sostenere questa tesi solo per la somiglianza descritta poc’anzi, non mi sembrava sufficientemente attendibile.
Per questo ho cercato argomentazioni che potessero essere più convincenti e penso di aver trovato una traccia interessante.
Analisi etimologica del fonema 'corno'
Il termine corno è ricondotto alla antichissima radice indoeuropea krn (individuabile anche nelle varianti ker, k̑erə- da cui k̑rā-, k̑erei-, k̑ereu-) → corno, testa, parte superiore del corpo. Tuttavia, questa radice può essere ulteriormente analizzata.
Ho preso infatti in considerazione le ricerche etimologiche di Franco Rendich, un meticoloso studioso di sanscrito che ha redatto un’opera con la quale esplora l’indoeuropeo in modo inusuale rispetto ai canoni della linguistica accademica e lo compara con le tre lingue classiche per eccellenza (sanscrito, greco e latino).
Quello che ho trovato particolarmente apprezzabile è l’intento di ricostruire i valori semantici originali delle singole lettere dell’alfabeto indoeuropeo che, secondo l’autore, venivano accostate seguendo criteri ben precisi.
In base a tali studi, dunque, scomponendo la radice indoeuropea krn si rivela un concetto ben più profondo delle semplici corna bovine:
• kr significa agire, dare forma, preparare;
• n vuol dire acqua.
L’idea alla base della radice krn potrebbe quindi essere ricomposta nel concetto di dare forma [alla vita] attraverso le acque [materne], una frase con cui si descrive in modo perfetto una gestazione, dal momento del concepimento al parto e che intuitivamente si lega senza ombra di dubbio alle peculiarità della Dea Madre, tanto alla sua essenza generatrice, quanto implicitamente in riferimento all’oscuro e umido ambiente in cui la vita si riproduce (il grembo materno, le profondità del terreno) rigenerandosi.
Ma possiamo risalire ancora più a monte.
La lettera K descrive la forma-funzione dell’Archetipo Kaf, in riferimento a quello che si può definire “l’Alfabeto del Pensiero”, e rappresenta la funzione pungente esprimendo significati che girano intorno al valore semantico di “punta”, sia nelle lingue indoeuropee, sia in quelle semitiche e persino nella lingua egizia.
Individuando una serie di corrispondenze, Sesto Pompeo Festo, grammatico romano del II sec., arrivò a dedurre che in una antica lingua madre la consonante K doveva significare “stare in cima”, “essere a punta”, “curvatura”. E a capire quindi che, nel partecipare alla formazione di un’azione verbale, la consonante K esprime un tipo di moto “che tende verso la punta”, “che si incurva”, “che avvolge” (Rendich).
La lettera R rappresenta l’Archetipo Resh, la forma-funzione del perfezionamento. Nella lingua indoeuropea la R esprime un concetto di movimento, è l’azione, la crescita, l’aumentare, il prosperare, perciò andando ancora più a fondo, è l’azione che modifica, che perfeziona.
Oltre ai già detti valori, Kr annovera ulteriori significati quali agire, fare, compiere, creare.
A questo punto è interessante verificare come l’etimo Kr si riflette nelle lingue classiche: lo ritroviamo in sanscrito, per esempio nella parola karman (karma) = “la forza del fare”, o karkara = duro, solido; nel greco, in molte parole tra cui κραίνω → kraino = compiere, realizzare, creare, e Κρατος→ Kratos = potenza, forza; e infine anche nel latino con il verbo creo-are = creare.
Ora per un attimo rileggete le ultime parole che ho messo in grassetto e chiudete gli occhi. Non vi sentite al cospetto della Grande Madre?
Il significato delle corna - antropologia di un simbolo
Da tempo immemorabile (le attestazioni risalirebbero almeno al neolitico) le corna sono simbolo di buon auspicio e di protezione.
Antiche espressioni popolari, alcune delle quali giunte fino a noi, parrebbero contenere l’elaborazione e l’estensione del concetto che lega la Grande Madre al valore semantico delle corna.
Per esempio: Vivere dentro un corno vuol dire vivere in un ambiente buio e senza contatti esterni, fare una vita ritirata e/o protetta; l’esclamazione È un corno! sta per essere forti, inflessibili, sia in senso fisico che morale.
Il gesto delle corna (indice e mignolo sollevati, medio e anulare ripiegati sul palmo e trattenuti dal pollice) sembra che derivi dall’usanza delle donne romane di indossare un amuleto all’indice e uno al mignolo. Fare il gesto delle corna con la mano indirizzata verso qualcuno significa (tutt’ora) Allontanati, non puoi fare nulla contro di me poiché Qualcuno [di superiore] mi protegge!
La correlazione tra la dea madre e il morfema indoeuropeo krn
Questa interpretazione sulla correlazione tra la Dea madre e le corna in base alla radice indoeuropea krn, mi sembra più coerente e verosimile.
Ma se è così che va individuata, anche il simbolo del toro come emblema della fertilità viene ridimensionato in quanto non è l’animale in sé a significare l’attitudine alla procreazione, ma soltanto il valore alla base dei suoni/simboli che le sue corna rappresentavano.
In effetti, se continuassimo a tenere valida la versione ufficiale (toro=fertilità), un altro sottile dubbio rimarrebbe puntigliosamente aperto.
Ci si potrebbe domandare se abbiamo davvero afferrato in pieno la simbologia del toro.
Nella preistoria esistevano anche altri animali molto prolifici da prendere in considerazione a rappresentare la fecondità.
Forse allora nella simbologia del toro vanno rintracciati aspetti rimasti ancora in ombra?
Forse, chissà.
La stele antropomorfa nota come La Dame de Saint-Sernin (Francia meridionale) che Marija Gimbutas interpreta come la dea-civetta con indosso una collana a forma di bucranio terzo millennio a.C. (pubblico dominio tramite Wikipedia)
Grazie
Tiziana Pompili Casanova
Tiziana Pompili Casanova
Ricercatrice e scrittrice.
Ex speaker radiofonica e copywriter. Collabora con Biagio Russo e Paolo Navone alla gestione del gruppo Facebook “Viaggiatori dei Tempi”. Ha in cantiere diversi lavori editoriali (fra cui un romanzo e un saggio che presto saranno pubblicati) e altri progetti nel campo della ricerca storica.
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