Ma facciamo un passo indietro.
Come si è detto, Caltabellotta è adagiata sulla parte meridionale del Pizzo Kratas, lembo occidentale dei Monti Sicani, in antico detti Monti Kratas; la Rupe Gogala è in un angolo del Kratas. A questo punto credo sia interessante indagare sul significato del toponimo che si ripresenta per ben due volte, nell’antico appellativo dei monti e in quello di una delle cime a ridosso dell’abitato di Caltabellotta.
Immagino siano state già fatte analisi sull’etimologia del Kratas. Purtroppo, però, non sono riuscita a trovare nessun documento specifico in proposito. Le ipotesi che presento sono quindi frutto della mia ricerca personale, sono idee, spunti, basati su esperienze precedenti in questo campo. Rappresentano il mio impegno a ritrovare le strutture logiche di base, frutto del preciso ragionamento degli antichi, che, in principio, diedero origine ai nomi delle cose. Forse, nonostante i miei sforzi di accuratezza, come autodidatta, posso aver mancato nella tecnica dell’indagine linguistica, ma non ho la pretesa di aver trovato la verità assoluta.
In primo luogo, con una supposizione elementare, si potrebbe prendere in considerazione il (desueto?) termine usato nella provincia agrigentina: krata, che vuol dire cresta di collina. Un’idea semplice, coerente con l’area rupestre, su cui sembrerebbe esserci ben poco da argomentare. Ho constatato spesso però che un idioma vernacolare conserva le forme più antiche di certe parole. Quindi, in seconda battuta, viene spontaneo accostare krata e Kratas alla radice indoeuropea krāt- (individuata anche nelle varianti kert-, kerət-) il cui significato è “rotolare”, “girare”, “avvolgere”. La zona sicana ricca picchi, creste, rocce che sembrano “avvolgere” l’abitato, nel tempo sarà stata spettatrice del distacco, relativamente frequente, di pietre che, nel “rotolare”, precipitavano a valle. Potrebbe essere questa, perciò, l’idea di base che ha ispirato il nome Kratas? In verità il confronto con la radice krāt non mi ha convinta del tutto, non ho trovato il significato pienamente calzate. Quindi ho preferito cercare un’ipotesi alternativa.
Il lamento antico sulla rupe
Si può valutare un legame con il greco κρατεω (krateo) che risale alla radice indoeuropea *krt, che dà l’idea della “preminenza”, della “saldezza” e della “forza” e da cui si desumono i valori “essere/risultare superiore”; “dominare”; “avere potere” (è confrontabile con il sanscrito kratu = “potere”, “volontà”). Da questa *krt deriva ad esempio Κράτος (Kratos), nome del mitico personaggio divino, nato dal Titano Pallante e dalla ninfa oceanina Stige, personificazione della forza che rappresenta il potere di dominio che soggioga. Anche in questo caso non manca un nesso logico, sempre legato all’ambiente montuoso che “domina” e risulta “superiore” al paesaggio circostante.
In alternativa all’indoeuropeo, la radice *krt, viene considerata d’origine piuttosto incerta, fenicia forse, o presumibilmente generata dal sostrato linguistico mediterraneo. Indagando in questa direzione ho trovato un interessante documento, divulgato da un gruppo di ricercatori universitari di Madrid, sui “Sistemi difensivi nella toponomastica fenicia della costa atlantica iberica e nordafricana”, nel quale viene affermato:
“Sulla costa atlantica della penisola iberica e del Marocco si possono identificare una serie di toponimi
Semiti, […] indicativi dell’uso da parte della popolazione fenicia di diversi tipi di fortificazioni almeno dal IX-VIII secolo a.C., […], secondo il grado di complessità del sistema difensivo, si può indicare la presenza di: Qrt, con il significato di cittadina. Gdr, con il significato di recinto murato o muro di cinta. Krt, con il significato di città fortificata. Infine, Mgdl, che significa torre o torre di avvistamento fortificata. […] Questa terminologia nell’architettura difensiva continuò nel periodo punico-cartaginese fino al arrivo di Roma." (10)
Le genti fenicie in Sicilia sono documentate a partire dall’VIII sec. a.C., quindi l’epoca corrisponderebbe (nel caso *krt fosse con certezza ricollegabile al fenicio) e Caltabellotta è una città dalla posizione inespugnabile perché naturalmente fortificata, per cui questa ipotesi potrebbe risultare verosimile.
La radice indoeuropea *krt può essere confrontata con un’altra : *kar- (“duro”, “difficile”, “forte”, a volte raddoppiato karkar-). È documentata nei suoi significati principali di “pietra” o “roccia”, confrontabili con i sanscriti kṛtā (“taglio in una montagna”, “abisso”) e karta (“separazione”, “cavità”), concetti che, di nuovo, rientrano nel campo semantico attinente e descrivono aspetti essenziali del territorio di nostro interesse.
Ciononostante, continuavo ad avere delle riserve.
Per andare più a fondo però è opportuno ricorrere ai significati delle consonanti e delle vocali dell’alfabeto indoeuropeo che, singolarmente, avevano un preciso valore semantico, così come spiega l’autore Franco Rendich (11) a cui mi ispirerò nell’esposizione che segue.
Prendendo singolarmente le consonanti che in dettaglio ci interessano, abbiamo:
la consonante “k”: era il simbolo del moto curvilineo apparente dei corpi celesti nello spazio e rappresentava il moto dell’energia creatrice dell’universo, composta di acque;
la consonante “ṛ”: riconduce a significati come “muovere verso”, “andare”, “venire incontro”, “giungere”, “raggiungere”, “muovere verso l’alto”. Nel senso di “raggiungere” riguardava anche oggetti concreti e indicava l’acquisizione del possesso dei beni che erano stati “raggiunti” in quanto meritevoli di essere presi o di essere dati;
la consonante “t”: in origine, con ogni probabilità, aveva il significato di “luce” (lo stesso era per la consonante “d”). Il concetto derivò dall’osservazione del moto apparente dei corpi celesti nello spazio suscitando l’idea di moto che “passa oltre”, “va al di là”, “attraversa”. In sanscrito la radice tṛ designa infatti sia la ‘stella’, sia l’azione (con r allungata) di ‘attraversare’, il tipico moto dei corpi celesti. Un indizio sul fatto che “t” e “d” avevano lo stesso valore viene dalle lingue germaniche, in cui l’inglese god e il tedesco Gott, “dio”, sembrano per l'appunto significare “luce [t/d] in movimento [gā]”. Anche il greco in théos e theá (Dio e Dea) conserva il ricordo dell’antico significato indoeuropeo della consonante “t” = “luce”.
Le tre consonanti indoeuropee “k”, “ṛ”, “t”, generano differenti radici. Fra quelle ci interessano:
- kṛ [k+ṛ/ar/ra]
1. “eseguire [ṛ/ar/ra] un movimento nello spazio [k]”, “fare”, “compiere”, “fare un sacrificio”, “agire”, “creare”;
2. “produrre un suono”, “pronunciare”;
- kṝ [k+ṝ] “muovere [k] verso l’esterno [ṝ]”.
1. “versare”;
2.“esternare i propri stati d’animo”, “avere pietà”, “sentire compassione”, “immedesimarsi”;
- kṛt [kṛ+t]
“agire [kṛ] tra due punti [t]”, “tagliare”, “dividere”, “cogliere”;
- kṛ [k+ṛ/ar/ra]
1. “eseguire [ṛ/ar/ra] un movimento nello spazio [k]”, “fare”, “compiere”, “fare un sacrificio”, “agire”, “creare”;
2. “produrre un suono”, “pronunciare”.
La cosa che subito mi colpisce è che le radici indoeuropee kra (presente anche nelle forme kla e kal), kṝ e kṛ indichino “produrre un suono”, “pronunciare”; “esternare i propri stati d’animo”, “avere pietà”, “sentire compassione”, “immedesimarsi” che Rendich estende a significati come “fare un suono tutt’intorno”, “chiamare”. Si esprime quindi il concetto del “diffondersi” di una voce che “chiama”, o quello del lamento di un “pianto”, o del rumore di un “grido”. Tutto ciò mi ha ricordato una antica e commovente usanza caltabellottese.
Le donne salivano sulla Gogala (posta in un angolo di Pizzo Kratas) e lasciando andare la loro voce al vento con grida, canti e invocazioni, interrogavano la rupe di Caltabellotta chiedendo notizie dei loro cari emigrati, partiti per cercare lavoro e guadagnarsi il pane, o per la guerra e mai più tornati. La Gogala “dava risposte” con segni, fruscii, sibili o rumori che le donne interpretavano traducendoli in informazioni. Questo innegabile rapporto tra il nome del Picco Kratas che richiama radici indoeuropee con valori che esprimono concetti esattamente combacianti con quella immemore consuetudine caltabellottese, può essere dai più scettici considerata una coincidenza, ma difficilmente può lasciare indifferenti. C’è un video in proposito su youtube, un documento storico toccante, spezzoni di riprese girate negli anni ’60 e tratte dall’archivio della Rai. (https://youtu.be/H_9aKUHnJMg)
Ma lasciamo da parte l’emozione e riprendiamo il tema etimologico.
Il sanscrito eredita le radici kṛ/kar/kra nei significati “fare” e “agire”. Julius Pokorny individua in kar- (karə-) anche i significati di “lodare” e “glorificare”.
Nel buddhismo il termine karman (o Karma) indica la forza delle azioni dell’uomo che, secondo la loro qualità buona-cattiva, gli fanno accumulare quei meriti, o quei demeriti, che determineranno la sua condizione alla successiva rinascita conducendolo sulla via di una delle sei classi di esseri futuri. […] Le prime due vie sono buone, mentre le altre quattro sono cattive. Karma è quindi il processo di purificazione della nostra personalità individuale che, una volta liberati […] da tutto ciò che è māyā […], ci permetterà, dopo la morte, di ricongiungerci con lo Spirito Supremo che anima e pervade l’universo […]. (11) Concetti analoghi si ripresentano in Krita Yuga, lo “Yuga (età) della Verità”, nell’induismo l’era in cui il genere umano è governato dagli Dei e ogni manifestazione o attività è vicina all’ideale più puro. Le persone, durante quest’età, credono solo nel bene, sono attivi nell’ambito spirituale e agiscono sempre senza interesse personale. È l’epoca associata all’Età dell’Oro, il mitico tempo del regno di Crono/Saturno.
Ci sto girando attorno?
Fin qui la ricerca mi sembrava che rivelasse idee coerenti, strettamente connesse una all’altra. Eppure, avevo l’impressione di “girare un po’ in tondo” e che l’intuito volesse spingermi ancora oltre.
A sbloccare la situazione è stato scorrendo l’Indogermanisches etymologisches Wörterbuch in cerca di ulteriori indizi. Laddove Pokorny presenta la radice indoeuropea eis- “muoversi rapidamente”, “guidare = stimolare”, “rinfrescare”, tra il materiale linguistico derivato riporta il termine íṣ-kr̥ti- = “guarigione”.
“Kr̥” accostato a “guarigione” mi ha fatto pensare ai chakra (adattamento occidentale del termine sanscrito traslitterato come cakra), i sette principali centri o vortici energetici, o centri di forza tra il corpo fisico e quello etereo umano che hanno il compito di “incanalare e distribuire” la forza vitale, il prana.
Prana (letteralmente “vita” e inteso anche come “respiro” e “spirito”) è un termine sanscrito derivato da due radici: ‘pra’ è un prefisso impiegato per indicare la costanza, mentre ‘na’ indica il movimento. Il prana, quindi, si definisce come un movimento costante di energia, una forza caratterizzata dal moto perpetuo. Questo soffio, vero e proprio respiro, rappresenta l’irradiarsi del fluido vitale che emana dal cosmo e dal sole, e in tal senso costituisce l’essenza di ogni manifestazione della vita. Benché invisibile ai nostri occhi, noi evolviamo su questo pianeta in un oceano di prana: è il campo energetico universale. (Régine Degrémont, Chakra e corpi sottili: Conoscere e armonizzare il potere dei centri energetici Ed. Il Punto d’incontro)
l chakra veicolano il campo energetico universale del prana costituito da particelle di luce fotonica, informazioni cosmiche che il corpo interpreta continuamente per esprimere la vita. Questa energia universale è detta anche etere, quinto elemento, quintessenza. Ma il fattore fondamentale è che tale energia opera sulla materia.
L’etimologia sanscrita renderebbe la parola chakra con: espandere (l’essenza) (kas), essere appagati (in questa essenza) (cak), spezzare i legami (krt-) e agire con efficacia (kr-). Il chakra, pertanto, è qualcosa di appagante, che spezza e che dispone della potenzialità dell'azione. (Lilian Silburn, La kundalini, o l’energia del profondo, Adelphi, Milano, 2009.)
Secondo l’etimologia sumerica, sagra (o chakra) indica il “cuore che drena o che inonda”. (Anton Parks, Le secret des étoiles sombres, Éditions Nouvelle Terre, Lopérec, 2005.)
Come ricollegare insieme tutti gli elementi riassumendo tutto il già detto?
Le società arcaiche, in perfetta armonia con i ritmi cosmici, tenevano in somma considerazione che, una volta giunti all’ultimo giro della “ruota dell’anno” quando l’astro eliaco sembra morire, sarebbe stato necessario far ‘rivivere’ il Sole con specifici rituali che garantissero fertilità e la fecondità per l’anno successivo. “Si può anche dire che, in ogni parte del mondo, le società tradizionali conoscevano e applicavano metodi rituali per ottenere la rigenerazione del tempo.” Questa necessità di una nuova ‘nascita’, tuttavia, rivela “qualche cosa di ben più importante: cioè che una rigenerazione periodica del tempo presuppone, sotto una forma più o meno esplicita, […] una creazione nuova, cioè una ripetizione dell’atto Cosmogonico […] in fondo un tentativo di restaurazione, anche momentanea, del tempo primordiale, del tempo ‘puro’, quello dell’istante creazione.” (12)
Questo sembrerebbe essere uno dei motivi che spingeva gli antichi ad una attenzione quasi ossessiva al ciclo degli astri, del Sole in modo particolare. Il ritorno del Sole e della sua luce erano dunque fondamentali non soltanto perché fosse garantito il ciclo vegetativo annuale. Non solo per questo. Sembrerebbe che la conoscenza dell’uomo antico fosse stata straordinariamente ricca, profonda, armonica, connessa con l’Universo in modo diretto, semplice ed efficace. L’uomo delle società arcaiche, in sintonia con i ritmi naturali, percepiva nella vita e nel Tutto qualcosa di sacro ed essenziale, qualcosa che è oltre la materia tangibile ed era in grado di riconoscere in ciò che la natura metteva a disposizione (raggi cosmici, luce, pietre, acque, vento, forze sotterranee) gli elementi primari per il suo benessere.
Guarire perciò aveva a che fare con una sorta di nuova visione, di illuminazione. Guarire significava raggiungere la capacità di essere consapevole, osservare rivolgendo gli occhi alla luce. Guarire era “andare”, “venire incontro” (“ṛ”) al “moto dell’energia creatrice dell’universo, composta di acque” (oceano di prana) (“k”), era “tagliare”, “dividere”, “spezzare i legami” (krt-) e “agire con efficacia”, “fare un sacrificio” (kr-), “muovere verso”, “raggiungere” (“ṛ”) la luce (“t”).
È sorprendente che la moderna fisica quantistica suggerisca conclusioni analoghe: la guarigione è un cambio di frequenza che interrompe (spezza) lo stato disarmonico e riporta in armonia lo stato vibrazionale dei nostri corpi: sia quello fisico che quello etereo.
A questo punto mi è sembrato significativo ricordare che Julius Pokorny individua nella radice indoeuropea kar- (karə-) anche i significati di “lodare”, “glorificare”.
In tutto il mondo pitture e incisioni rupestri mostrano figure di soggetti con le braccia alzate verso il cielo. Sono detti “oranti” o “saltici” perché ricordano i ragni che hanno questo nome.
Esempi di soggetti “oranti” o “saltici” da varie parti del mondo
Dal mio punto di vista sono figure intente a “lodare”, “glorificare” e ad irradiarsi dell’energia emanata dal cosmo attraverso le braccia aperte e sollevate in alto. Sono creature della Terra in connessione con il Cielo. La stessa forma è infatti il simbolo dell’archetipo Hè che esprime la funzione vivificante, la funzione che anima ogni cosa. Hè rappresenta un ponte tra il mondo materiale e il mondo spirituale, la relazione simbiotica ed armonica fra mondo superiore e inferiore. È la Divinità che irradia l’uomo e lo rende fecondo, è la Luce riflessa che lo rende consapevole di sé stesso e delle sue origini.
Nella tradizione cultuale indoeuropea gli atti di purificazione, insieme ai riti sacrificali, erano il mezzo più idoneo per legarsi alla luminosità dello Spirito Assoluto, fonte di benessere e speranza di immortalità. Durante questi riti il devoto prega, pentito dei suoi peccati, e con il lamento del proprio pianto implora la divinità di renderlo puro. (Rendich)
L’acqua, l’elemento più diffuso su questo pianeta, nei riti di purificazione e guarigione non era fondamentale solo per le sue proprietà rigenerative, ma soprattutto perché ha affinità con l’energia creatrice. L’acqua accumula e trasmette l’energia cosmica (elettrica e magnetica).
Sarà dunque per questo che nei luoghi impervi difficilmente raggiungibili dei preistorici santuari rupestri dedicati alla guarigione e al recupero della salute, si trovano moltissime vasche scavate nella roccia? Spesso sono accostate, una in lieve dislivello dall’altra, a volte comunicanti con un foro. Siamo sicuri che tali vasche conosciute col nome di palmenti rupestri siano davvero antichi impianti di produzione vinicola o siano invece state riutilizzate per la pigiatura delle uve ed alla fermentazione dei mosti, vasche molto più antiche destinate in origine ad altro scopo?
A questo punto ci dobbiamo porre ancora una domanda. Davvero nel panorama italiano ed estero non c’è niente che presenti analogie con l’Ara di Kronos e l’area rupestre di Caltabellotta?
Qualcosa c’è, dal mio punto di vista. Anzi più di qualcosa...
(continua...)
Grazie
Tiziana
Note:
(10) Luis Alberto Ruiz Cabrero, Alfredo Mederos Martín, Fernando López Pardo: Sistemas defensivos en la toponimia fenicia de la costa Atlántica Ibérica y Norteafricana.
(11) Franco Rendich (1931 – 2019), professore di sanscrito all’Università di Ca’ Foscari, autore del Dizionario etimologico comparato delle lingue classiche indoeuropee. Dizionario indoeuropeo (sanscrito-greco-latino)
(12) Mircea Eliade, Il mito dell’Eterno Ritorno (Lindau, 2018)
Tiziana Pompili Casanova
Ricercatrice e scrittrice.
Ex speaker radiofonica e copywriter. Collabora con Biagio Russo e Paolo Navone alla gestione del gruppo Facebook “Viaggiatori dei Tempi”. Ha in cantiere diversi lavori editoriali (fra cui un romanzo e un saggio che presto saranno pubblicati) e altri progetti nel campo della ricerca storica.
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