L'isola freme in questo periodo dell'anno. Nei paesi barbaricini va in scena un mistero millenario; un segreto codice tra uomini e dei tramandato di padre in figlio che si foggia di passi di danza e suggestivi costumi.
A Mamoiada va in scena Maimone, o Mamuthone, la divinità nuragica portatrice dell'acqua della vita. Significato che viene richiamato dal nome stesso del dio: mam è acqua, muth è il verbo chiamare e ones sono gli uomini.
Dodici “uomini che chiamano l'acqua” agghindati con un abito di lana di pecora e 30 kg di campanacci – sa carriga - che si muovono all'unisono, diretti da un Issohadore, colui che porta la soha, la fune.
Il momento è solenne.
Il frastuono ordinato prodotto dai campanacci non può essere disturbato ma solo incubato nel silenzio che prende la forma di un antico rituale.
E' un momento magico che comincia ore prima quando, in solenni movimenti, gli uomini procedono alla vestizione incarnando una nuova natura: quella della bestia.
Ogni accessorio componente l'abito del mamuthone ha un significato simbolico:
Sa visera è la maschera insepressiva, con un eterno riso sardonico che denota la trasformazione ultima dell'uomo comune nello ierofante.
Su muncadore è il fazzoletto legato sulla testa che ha valenze femminili, forse in ricordo di antichi rituali sciamanici in cui ogni sciamano se uomo è assistito (e diventa) da uno spirito ausiliare femminile e viceversa.
Su bonette è il berretto, posto sotto il muncadore a rafforzare la doppia valenza maschile femminile.
Sas peddes o mastruca costituiscono il lungo mantello di lana di pecora rigorosamente nera.
Sos usinzos scarponi di cuoio fatti a mano.
Sa carriga sono le cinture di cuio alle quali solo legati i campanacci che hanno un peso complessivo di 25/30 kg.
Su bulledu è l'abito sotto le pelli di pecora che è
rifgorosamente di velluto nero o marrone.
Gli Issohadores, invece, hanno abiti differenti.
Sa visera 'e santu è la maschera che è stata riscoperta negli anni 90 dopo un accurato studio del passato.
Sa berritta è il copricapo tradizionale che viene tenuto fermo da un fazzoletto colorato legato sotto il viso.
Su curittu è la giacca in panno di colore rosso.
Sa 'amisa è una camicia bianca senza colletto.
S'issallu è uno scialle ricamato, piegato a triangolo e legato in vita
Sas carzas sono calze in orbace che rivestono le scarpe fino sotto il ginocchio
Sa soha è la fune oggi in giunco ma che, anticamente era di cuoio
Sos sonaiolos è una cintura di pelle messa di traverso sulla spalla e arricchita di campanelli.
Su pantalone sono i pantaloni, sempre di colore bianco.
Il rituale
Disposti in file parallele di sei, i mamuthones sono pronti a condurre i presenti in un viaggio nel tempo.
Esige il silenzio su Issohadore prima del battito di inizio. E parte il primo colpo di piedi pesanti e il suono grave, profondo, rombante, dei campanacci.
Pare che ad ogni passo dei mamuthones il suono prodotto possa giungere fino alle viscere profonde della terra a chiederle di svegliarsi, di tornare a fiorire a nuova vita.
Neri i volti scolpiti in legno di pero o d'ontano, nere le vesti come il nero alchemico dell'inverno e delle oscure profondità della terra.
Neri i risi sardonici come quell'antica espressione stampata anche sui volti degli anziani che venivano gettati dalle rupi ai quali era fatto bere un intruglio di erbe dall'effetto nevralgico che era il fautore del sorriso della morte.
Bianchi e rossi gli Issohadores come l'albedo e la rubedo, come la nuova alba di primavera.
Procedono lenti nel silenzio della folla. Nessuna parola esce dai loro sorrisi ma ad ogni battito di campane risuona nelle viscere e pare un ultimo grido di dolore.
Il percorso è breve ed è l'ultimo verso la morte che li attende in un ingordo falò.
Non tentano di fuggire.
Sarebbero subito ripresi dalle funi degli Issohadores che sono otto come il simbolo della vita – morte e rinascita.
Tutti sanno che quel ascrificio è necessario affinchè la vita si rigeneri.
La terra chiede sangue e fino al secolo scorso i protagonisti del tragico rituale si procuravano ferite e scarnificazioni per donare gocce di sangue alla terra.
Termina con l'ultima danza, grave e sonora, l'ultimo suono prima del mortale silenzio che si spegne tra le fiamme e nella speranza di ricevere il compenso richesto dal sacrificio degli uomini che chiamano la pioggia.
I campanacci smettono di suonare. Tutto è compiuto e comincia una bacchica festa con dolci e vino.
Voglio concludere questo articolo con la testimonianza di uno degli uomini che chiamano la pioggia, quasi a volerci ricordare che, quando dietro le transenne del percorso obbligato, attendiamo il primo battito, sono gli spiriti antichi, vivi nelle maschere e negli abiti sonanti quelli che vediamo, antichi testimoni di un tempo che non sarà mai del tutto perduto fino a che riusciremo a tenere viva la memoria ancestrale.
“Mi soffermo un attimo per descrivere la metamorfosi che avviene in me e il modo con Cui sono coinvolto a vestizione ultimata. Dopo aver indossato la maschera e sistemato il fazzoletto mi prende una sensazione magica, mi sembra di acquistare il potere delle divinità di altri tempi. Questa sensazione è reale quando il mamuthone svolge il suo compito senza levare la maschera dal volto, sento questa forza al mio interno e tutto ciò che ho addosso diventa un blocco unico, senza rendermene conto, corpo, vestiario e campanacci diventano un unico elemento. Nello stesso momento ho la sensazione che la mia personalità si sdoppi, senza capire né come ciò accada né perché, la mente si stacca dalla realtà, pur convinto di essere me stesso mi sento come invaso e posseduto da un’altra entità. Mi carico di misticismo e frenesia come se mi immedesimassi ed entrassi all’interno di una persona di un’altra epoca, ho una forte sensazione di percorrere un evento di un lontano periodo, i brividi mi Vol 1, No 1 (2010) http://antropologiaeteatro.cib.unibo.it 17 attraversano il corpo con frequenza, l’adrenalina sale alle stelle, la tensione è fortissima, divento anche intrattabile, non sento né dolore né fatica, mi invade la fierezza, è come se entrassi in trance, ho solo la consapevolezza che ho l’obbligo di tenere una posizione di contegno e di grande rispetto per ciò che devo fare e rappresentare. Le gambe sembrano diventare molli, spesso scalcio come per levare qualcosa che ho addosso nell’ansiosa attesa che il guidatore dia il via per l’esecuzione dei primi salti di sfogo per riportarmi alla normalità, in quei momenti eterni mi viene il desiderio di osservarmi in volto per scrutarmi, per vedere quello che mi succede, ma non posso farlo. Durante qualche breve sosta, le poche volte che levo la maschera per prendere fiato o per pulire gli occhiali dal sudore pungente, ho l’occasione di risistemare il fazzoletto sfruttando il riflesso dei vetri delle autop in sosta che fanno da specchio. Mi guardo e mi riconosco per metà, mi viene spontaneo sfruttare i lineamenti della maschera, li vedo misteriosi, rigidi e freddi, nonostante la loro durezza li vedo pieni di vita e di vigore, improvvisamente si ode il richiamo del guidatore, bisogna rimettersi in fila, i campanacci attendono con ansia di essere messi nuovamente sotto presisone e il momentaneo incanto visivo svanisce. Ricomincio a scrollare i campanacci provando un piacevole senso di liberazione interiore, vedo il mondo che mi sta attorno in modo diverso, distaccato dalla realtà, riesco a cogliere particolari che mi restano nella memoria e che in situazioni normali non riesco a percepire, metto a fuoco le persone che mi osservano stupite e le cose che raggiungono il mio sguardo, sapendo che chi mi osserva con insistente curiosità vorrebbe vedere e sapere chi si cela dietro la maschera, intravedo lo stupore degli adulti e il terrore che attanaglia i bambini al nostro passaggio, maggiormente durante lo scrollare dei campanacci. Sono momenti inebrianti, ho la sensazione che una forza ignota mi spinga inconsciamente a dare il meglio di me stesso.” (tratto da: Storia, analisi e valutazione sui Mamuthones di Franco Sale)
Grazie
Monica