L’assiriologo Franco D’agostino non sembra nutrire molte speranze che si possa scoprire, un giorno, l’origine del sumerico, già accostato a diverse lingue, senza peraltro che si sia mai riusciti a trovare nemmeno una semplice relazione indiretta.
Tra le lingue che potevano contenere affinità con l’idioma dei Sumeri c’è l’ungherese e il ramo ugro-finnico, il basco, le lingue turco-mongoliche e la famiglia uraloaltaica, le lingue dravidiche dell’India meridionale, le lingue kartveliche del Caucaso, il cinese, il navajo e altre ancora.
Eppure: «Nessuna comparazione ha retto al vaglio della rigorosa analisi scientifica: il sumerico resta, salvo nuove scoperte future, una lingua “isolata”, cioè una lingua che figura da sola come l'ultima rappresentante dell’intera famiglia linguistica cui apparteneva e che con essa si è estinta».
D’agostino sottolinea che il problema del sumerico è comune ad altre lingue dell’Asia sud-occidentale, meno conosciute ma comunque appartenenti allo stesso gruppo: tra queste certamente l’elamita dell’Iran, l’hurrita e l’urarteo di Iraq settentrionale, Siria, Anatolia e Armenia.
È praticamente impossibile risalire oltre, anche perché nel frattempo si sono frammessi almeno tre gradi linguistici: accadico, aramaico e arabo.
Se non si riesce a scoprire l’origine del sumerico, è ancor più difficile identificare il luogo di provenienza dei Sumeri.
Nonostante le tante congetture, non ci sono ancora prove archeologiche o documentarie che possano legare le Teste nere a qualche terra nativa.
In gergo, questa annosa problematica è giustamente indicata come questione sumerica.
La moderna storiografia è sempre più orientata a sostenere che all’origine della primigenia civiltà mesopotamica ci sia stata una straordinaria convergenza di elementi etnico-linguistici, diversi fra loro.
D’Agostino osserva infatti: «Sulla base delle risultanze archeologiche, non è possibile determinare un periodo preciso in cui i Sumeri siano entrati in Mesopotamia; è stato proposto, a ragione, come questa situazione possa indicare che il sumerico, oltre a essere una lingua isolata, sia una lingua che si trovasse già nell'area al momento della diffusione dell’elemento semitico, e che sia quindi da considerarsi autoctona (come il basco e l’ungherese in Europa prima dell’arrivo degli Indo-Europei)».
Molto più ottimista pare essere il collega Pietro Mander, che a proposito dell’appartenenza linguistica del sumerico, oltre a ricordare le affinità di strutture grammaticali con l’elamico riscontrate da Steiner, annota che altre caratteristiche della sintassi conducono invece verso regioni geograficamente molto lontane: «Il confronto del sumerico con alcune lingue della Siberia orientale ancora vive, connesse al paleo-siberiano, in particolare il chukchee, parlato da poche migliaia di persone nella lontanissima penisola della Kamchatka, ha messo in luce alcune peculiarità di costruzioni di notevole affinità».
La mappa di distribuzione delle lingue Chukotko-Kamchatkan (scuro) nel XVII secolo (approssimativo; tratteggio) e alla fine del XX secolo (sfondo continuo) (Pakendorf, Brigitte 2007, Pubblico dominio)
La Kamchatka è una penisola della Siberia nord-orientale, bagnata dalle acque dell’oceano Pacifico e del mare di Ochotsk. Qui ci sono più di centocinquanta vulcani, di cui una trentina ancora attivi. È una terra che, per le particolari condizioni climatiche, ospita una nutrita fauna, tra cui diverse specie di volpi e aquile, animali ricorrenti nella mitologia sumerica.
Il giornalista Massimo Morello, presentando un reportage del fotografo Sebastiao Salgado pubblicato sulle pagine de La Repubblica nel 2007, così desciveva la Kamchatka: «Un territorio dinamico di straordinaria bellezza che comprende l’unica valle eurasiatica di geyser, una spettacolare fascia costiera, fiumi e laghi di origine glaciale, un ambiente in cui si fondono gli ecosistemi della tundra artica (con numerose specie vegetali in via di estinzione) e della taiga siberiana, che accoglie la maggior varietà di salmoni della terra, orsi, balene grigie».
Kamchatka Khelvi Biriukova (distributed via imaggeo.egu.eu, Attribution 3.0 Unported -CC BY 3.0)
Il tour operator Altreculture presenta il viaggio in Kamchatka con queste parole:
«Sembra di essere in una terra primordiale. Non si può fare a meno di rimanere incantati dai paesaggi mozzafiato di uno scenario unico di mondo perduto, dove è possibile osservare una così alta concentrazione di vulcani e sentire il respiro caldo della terra insieme al sapore del ghiaccio. Il fascino di questa ultima frontiera siberiana è proprio di essere così remota e selvaggia. Qui non ci sono solo distese gelate e altissimi vulcani innevati, ma anche la rigogliosa vegetazione della taiga e della tundra, corsi d’acqua impetuosi che formano cascate e laghi dai colori meravigliosi. In questo regno incontaminato vivono numerose specie animali tra cui pulcinelle di mare, fulmari, aquile di mare di Steller, aquile dalla coda bianca e aquile reali, lontre marine, foche, orche, leoni marini di Steller».
Non sembrano descrizioni del Giardino dell’Eden, oppure della paradisiaca Dilmun dove viveva il dio Enki?
Un altopiano della Kamchatka (Natalia_Kollegova, Pubblico dominio)
È questo il posto in cui si parla la lingua chukchee (o meglio le lingue ciukotko-kamciatke), accennata da Mander. L’idioma, che presenta affinità con il sumerico, appartiene alla famiglia linguistica paleosiberiana, isolata da altri ceppi e parlata anche nel territorio di Chukotka, a nord della Kamchatka, una regione che alla fine della glaciazione (prima dello scioglimento dei ghiacci e l’innalzamento del livello del mare) era collegata all’Alaska tramite la lingua di terra della Beringia: da lì i nativi americani, all’incirca dodicimila anni fa, raggiunsero il continente americano.
A proposito degli cukci o ciukci, gli abitanti della Chukotka, David Reich ha rivelato che sulla scorta delle sue analisi, questa popolazione possiede circa il 40% di ascendenza primo-americana a causa del riflusso dalle Americhe all’Asia: «I dati genetici spiegano con chiarezza che l’affinità è dovuta a una migrazione di ritorno dato che i cukci sono più imparentati con certe popolazioni di ascendenza interamente primo-americana che con altre, una scoperta che possiamo spiegare soltanto se un sottolignaggio di Primi americani nato molto dopo l’iniziale diversificazione delle linee primo-americane del Nordamerica sia migrato di nuovo in Asia».
Si tratta evidentemente di un tipo di scoperta, puntualizza il genetista, difficilmente dimostrabile con l’archeologia.
Stephanie Dalley, già docente di Lingua e cultura assiro-babilonese all’University of Oxford, rivela che alcuni temi delle narrazioni sciamaniche presentano sorprendenti somiglianze con i temi dei miti sumerici e accadici:
"L’albero del mondo, l’aquila cosmica e il serpente sono elementi che compaiono spesso insieme nel viaggio oltremondano dello sciamano, così come accade nella storia di Inanna e dell’albero halub, nel ‘Ciclo epico di Lugalbanda’ e della Leggenda di Etana […] Spesso lo sciamano cerca l’acqua e il cibo della vita, un dato che richiama la ricerca dell’immortalità da parte di Adapa […]
È del tutto plausibile supporre che lo sciamanesimo fosse un fenomeno autoctono dell’Asia settentrionale di origini antichissime e che pertanto avesse influenzato i miti mesopotamici alle loro stesse radici.
Ma altrettanto valida è l’ipotesi alternativa: che i miti e i rituali mesopotamici, esportati a più riprese in altri paesi attraverso il commercio e le deportazioni, passati nel buddhismo fin dai suoi inizi e poi diffusi attraverso la dispersione dei manichei perseguitati, furono all’origine di alcune manifestazioni registrate in tempi molto più tardi presso gli sciamani.
Secondo questa ipotesi, rafforzata dalle nuove conoscenze sulla storia della Mesopotamia, con una rivalutazione della sapienza dei dotti dell’antichità, alcune forme di sciamanesimo avrebbero incorporato elementi mesopotamici».
Ed è proprio in Siberia che, almeno per la maggioranza degli etnografi, nacque lo sciamanesimo, pratica spirituale tuttora in uso tra i suoi abitanti.
Lo stesso termine sciamano deriva dalla parola tungusa saman, che oggi conosciamo attraverso la lingua russa. Secondo De Santillana e von Dechend, che pur riconoscono allo sciamanismo un epicentro nell’Asia uralo-altaica, il fenomeno culturale, per la sua complessità, non può essere spiegato solo con la psicologia e con la sociologia, ma anche ricorrendo all’etnologia storica.
Quel che ha cercato di fare, in un certo senso, Victor Grauer, compositore e musicologo americano, che in Musica dal profondo (2015), un libro che costituisce un vero e proprio studio di etnomusicologia, si chiede se vocalizzare in continuazione come fanno i primati per giungere a stati di trance, possa essere un indizio sulle origini dello sciamanesimo; infatti la mancanza nell’uomo di sacche aerifere conduce all’iperventilazione e conseguentemente alla trance:
«Gran parte della cultura delle popolazioni indigene è basata su esperienze avute durante una trance: possiamo quindi azzardarci a indicare nella necessità di vocalizzare costantemente, nonostante la perdita delle sacche aerifere, la causa scatenante dell’origine della cultura stessa?».
L’antropologo Nevill Drury, in Shamanism del 1989 (Gli sciamani, 1995), scrive che gli sciamani della Siberia sono in grado di compiere voli sia in cielo sia nel mondo sotterraneo, per ricercare quelle anime che, separandosi dal corpo, provocano le malattie.
Inoltre, sono in grado di usare tecniche divinatorie e praticano la chiaroveggenza. Drury aggiunge che gli sciamani della Chukotka possono entrare in contatto con gli spiriti durante i sogni, che utilizzano per recuperare le anime perdute degli ammalati.
Un'illustrazione di uno sciamano in Siberia, prodotta dall'esploratore olandese Nicolaes Witsen alla fine del XVII secolo. È la prima rappresentazione pittorica conosciuta di uno sciamano siberiano ad apparire in Europa, dove il racconto di Witsen ha reso popolare il termine "sciamano"
Generalmente, tra le idee insite nello sciamanesimo, ricorre la considerazione che tutte le cose di questo mondo, comprese quindi piante, animali, pietre e acqua, sono vive e rappresentate da spiriti a cui si deve considerazione. Da questo concetto basilare, prendono spunto le altre: assumersi la responsabilità delle proprie azioni e mantenere l’equilibrio e l’armonia tra gli elementi.
Ed è questo che praticano gli sciamani: cercare di mantenere o ristabilire l’equilibrio tra gli elementi della natura, dominando gli spiriti appartenenti all’Albero cosmico, suddiviso in tre dimensioni, in poche parole e semplificando: cielo/divinità, terra/uomini e inferi/anime dei morti.
In sostanza, gli sciamani sono gli unici preposti nell’intermediazione tra gli uomini e gli spiriti.
L’antropologa Joan Jiko Halifax, in Shamanic Voices del 1979 (Voci sciamaniche. Raccolta di esperienze visionarie, 2013), definisce lo sciamano come una figura mistico-religioso-politica definitasi durante il paleolitico superiore e forse risalente ai tempi dell’uomo di Neanderthal:
«Può essere descritto non solo come uno specialista di cose spirituali, ma come figura multiforme. Gli sciamani sono guaritori, veggenti, visionari che hanno vinto la morte. Sono in comunicazione col mondo degli dei e degli spiriti. Possono lasciare i loro corpi mentre volano ai regni soprannaturali. Sono poeti e cantanti. Danzano e creano opere d’arte. Non sono soltanto leader spirituali ma anche giudici e politici, i depositari della conoscenza della cultura: storica, sacra e secolare. Hanno familiarità con l’astronomia così come con la geografia fisica; conoscono i regni vegetale, animale, minerale. Sono psicologi, comici e procacciatori di cibo. Soprattutto, ovunque, gli sciamani sono tecnici del sacro e maestri dell’estasi».
Il geologo Nikolay Samorukov, nel 1965, scoprì in Chukotka, sulla scogliera di Kajkuul, delle incisioni rupestri, i cui autori rimangono sconosciuti, come pure non conosciamo l’epoca in cui furono incise.
Fu l’archeologo Nikolaj Dikov, qualche anno dopo, a classificare le misteriosi incisioni e a individuare i resti di due accampamenti del tardo Neolitico siberiano, risalenti al 1000 a.C. In questo angolo remoto del pianeta, nel 2005 una spedizione italo-russa, con la collaborazione dell’Istituto di Archeologia russa delle Scienze di Mosca, è intervenuta in modo sistematico su tutti i ritrovamenti, catalogando finora duecentosettanta composizioni: «Le raffigurazioni si riferiscono alla vita quotidiana dei chukchi primitivi […] la cui principale attività di sussistenza era la caccia: i nomadi dell’entroterra uccidevano la renna selvatica, mentre chi abitava le coste colpiva i giganti marini. La renna nordica è dunque il soggetto principale delle pitture rupestri», come scrivono Stefania Zini ed Ekaterina Deviet nell’articolo Missione Chukotka.
Là dove finisce l’Asia, pubblicato sulla rivista Archeologia Viva nr. 121 nel 2007. Le autrici suggeriscono che, probabilmente, la scogliera di Kajkuul, unica nel suo genere nel paesaggio fluviale lambito dalla tundra, per molte generazioni costituì un punto di ritrovo per diversi popoli, che qui si riunivano per cacciare, ma anche per celebrare riti e cerimonie di carattere mistico-religioso:
«La dimensione mistica aveva un ruolo importante nella vita preistorica. Se ne ha traccia sulla scogliera di Kajkuul in una composizione ricorrente: le cosiddette “donne mukhomory” o “donne fungo”. Molte pratiche rituali diffuse tra gli aborigeni siberiani implicavano l’uso di funghi allucinogeni (mukhomory) capaci di provocare effetti psicotici. Nell’immaginario degli aborigeni, i mukhomory erano esseri fantastici dalle fattezze umane, ma con il capo che terminava con un enorme fungo. Sui mukhomory esistono i miti più svariati, ancora presenti nella memoria delle popolazioni locali. Si tratterebbe di donne trasformatesi in fungo e fuggite sottoterra con i figli, dopo essere state offese dai mariti. Oppure le “donne fungo” verrebbero inviate dalle forze dell’aldilà per accompagnare l’eroe morto all’incontro con gli avi. Secondo un’altra versione ancora, sarebbero addirittura delle belle ragazze che appaiono agli uomini e fanno loro dimenticare le mogli».
L’artista Morena Luciani Russo, in un articolo pubblicato on line, ricorda che tra le tante arti femminili dell’antichità «va annoverato l’uso del tamburo, che come ben testimonia la vasta letteratura etnografica è, insieme ai sonagli e ai campanelli, uno dei fondamentali strumenti utilizzati da donne e uomini per accedere agli stati sciamanici di conoscenza […] Dal punto di vista scientifico il suono del tamburo segna un incremento delle onde cerebrali Alfa e Theta.
Le prime sono le frequenze in cui si attivano maggiormente i collegamenti tra i due emisferi e si giunge a stati di benessere e rilassamento , le seconde sono responsabili di modificare la coscienza ordinaria verso immagini di tipo ipnagogico, estatico, facilitando stati di grande creatività.
Il tamburo ha quindi un grande impatto sul cervello degli esseri umani e non è un caso che abbia un ruolo prioritario nelle cerimonie sciamaniche».
È quel che sostiene anche Wolfgang G. Jilek, docente del dipartimento di psichiatria dell’Università della British Columbia a Vancouver, che studiando gli indiani salish, ha dimostrato che l’acustica del tamburo sciamanico genera una peculiare frequenza nelle onde theta dell’elettroencefalogramma, la stessa lunghezza d’onda cerebrale che si manifesta durante i sogni, negli stati ipnotici e di trance.
L’antropologo Michael Harner, già professore all’Università Columbia a Yale, all’Università di California a Berkeley e alla New School of Social Research di New York, aggiunge che i ritmi monotoni del tamburo attivano quelle particolari onde cerebrali, che sono associate con il pensiero creativo, simulando fra l’altro anche il battito cardiaco.
Mircea Eliade, nel suo fondamentale Lo Sciamanismo e le tecniche dell’estasi, specificava che in molti sogni iniziatici dei futuri sciamani figurava un viaggio mistico al Centro del Mondo, ove si trova l’Albero Cosmico: proprio da un ramo di quest’albero, lo sciamano forma la cassa del suo tamburo, che una volta battuto gli permetterà di viaggiare tra le dimensioni, trascendendo il tempo e lo spazio.
Lo storico delle religioni aggiungeva quindi che il tamburo, ricoperto con la pelle dell’animale che diventava il suo alter ego, era del tutto assimilabile all’albero sciamanico a pioli multipli, salendo il quale si ascendeva in cielo.
Luciani Russo scrive anche dei primi tamburi a cornice, impressi in una pittura rupestre rinvenuta a Çatal Huyuk, un insediamento del Neolitico risalente al VI millennio a.C., in cui si praticava il culto della Dea Madre, in particolare come «Signora della Vita, della Morte e degli Animali e le donne avevano un ruolo molto importante nella vita rituale e religiosa».
Il primo suonatore di tamburo a cui possiamo risalire oggi è una donna di nome Lipushiau, vissuta nel 2380 a.C.: era la nipote del re Naram Sim e aveva la qualifica di alta sacerdotessa del tempio della luna di Ur. Russo aggiunge che la cultura sumera produsse inoltre numerose statuine raffiguranti donne e dee che reggono tamburi tra le mani: «Secondo il celebre storico della musica Walter Wiora queste prime testimonianze del mondo sumero sono proprio la derivazione di una precedente tradizione neolitica».
Il tamburo riveste un ruolo particolare nelle cerimonie sciamaniche, poiché è considerato lo strumento più potente dello sciamano, un ‘mezzo di trasporto’ che lo conduce, come ricordava Mircea Eliade, nelle altre dimensioni: Cielo, Terra e Inferi.
Per questo motivo il manufatto assume spesso il nome di un cavallo o comunque di un quadrupede, mentre la bacchetta ben rappresenta la frusta.
C’è anche un’altra ragione da tenere in considerazione, e richiama guarda caso ancora una volta la Mesopotamia: come scrivono De Santillana e von Dechend il coperchio del «tamburo lilissu del Kalu, il sacerdote mesopotamico addetto alla musica e ministro del dio Enki/Ea» deve essere fatto «con la pelle di un toro nero che, secondo Thureau-Dangin, “rappresenta il Toro celeste”. Si veda inoltre Ebeling, 1931, per un testo cuneiforme in cui si afferma esplicitamente (p. 29) che la pelle è Anu; e ancora, Bezold, 1926, p. 210, s.v. sugugalu, “la pelle del gran toro”, un emblema di Anu».
L’archeologo orientalista Georges Contenau descrisse vividamente, nel 1951, come doveva essere realizzato, secondo la tradizione, il lilissu, che descrive come un timpano di bronzo con basamento, i cui suoni gravi accompagnavano i canti del Kalu.
La pelle che lo ricopriva proveniva da un bue nero, nell’orecchio del quale, prima che venisse immolato, si mormoravano gli incantesimi servendosi di una cannuccia. La pelle conciata andava quindi a ricoprire il tamburo ed era legata col tendine prelevato dalla spalla sinistra del bove. Seguendo un minuzioso rituale, il timpano si trasformava infine in uno strumento sacro, poiché vi si infondeva la vita come a una statua divina.
Nella Chukotka, una terra bagnata da due oceani (a Nord dall’Oceano Artico e a Est dall’Oceano Pacifico), c’è anche un altro mistero. Sull’isola disabitata di Yttygran è stato rinvenuto il cosiddetto Viale delle ossa di balena, due file lunghe mezzo chilometro, composte da costole e crani di grandi balene artiche, alte fino a cinque metri.
Le ossa, che sono state trasportate sull’isola da altri luoghi, introducono a un selciato che termina in una zona circolare, il cui contorno è formato da pietre, con al centro un antico focolare ricoperto di ceneri. Potrebbe essere un antico luogo di culto eschimese, anche se i nativi non ne sanno proprio nulla.
Grazie
Simone
Simone Barcelli è un divulgatore di Storia antica, archeologia e mitologia.
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